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Educatore 2.0

“Troveremo una strada, o ne costruiremo una”

Annibale

Sono in questo mondo da più di dieci anni, e da sette sono ufficialmente un educatore professionale.

Ho iniziato il mio percorso universitario con l’idea di diventare qualcosa che si è trasformato nel tempo.

Pochi sanno che la mia prima esperienza in assoluto è stata in una ludoteca per bambini da 1 a 3 anni. Sei mesi bellissimi. Ho fatto centro estivo con i minori, teatro con una compagnia integrata, poi sono arrivati il mio primo saish, il primo soggiorno ASL e così via. Ho affrontato quei primi anni con l’idea di aprire qualcosa di mio (alzi la mano chi non ci ha mai pensato) poi la strada che ho intrapreso mi ha dato altri input, diversi da quelli che mi avevano attraversato in precedenza. Amo lo sport, amo la comunicazione, amo la scrittura, amo la natura. Mi piace l’arte, mi piace dipingere e mi sto appassionando sempre di più alla fotografia. Mi piace fare formazione. Mi sono iniziato a chiedere: perchè limitarmi? Perchè tutto questo dovrebbe rimanere soppresso da un’etichetta, quella di “educatore” che non viene nemmeno riconosciuta dal sistema operativo di un qualsiasi sportello di ufficio pubblico (alza la mano con me se ti è capitato).

Viviamo nell’era multitasking, nell’era digitale, ed io come sicuramente molti di quelli che leggeranno queste righe, appartengo alla generazione dei Millennials, impossibile per definizione da racchiudere in una sola dicitura: credo che un essere umano abbia illimitate potenzialità e non sia giusto reprimere tutto il suo mondo per far spazio ad un solo ruolo.

Viviamo in un momento storico dove abbiamo la fortuna di allenare con più strumenti i nostri interessi. Educare è un termine di derivazione latina, composto dall’unione di “ex” e “ducere“, preposizione e verbo che uniti conducono al significato di “tirare fuori”: qui si plasma l’educatore 2.0. Quello che lavora in comunità e crea progetti fotografici sulla natura. Quella che fa il sostegno la mattina e insegna danza il pomeriggio. Quello che segue tre ragazzi in assistenza domiciliare, corre maratone e scrive libri. Quella che lavora al nido e dipinge su commissione. Ma bada bene: non si tratta di fare più lavori, perchè se sei educatore, tutto quello che fai non è in più, ma appartiene al tuo modo di essere. Si auto-include e ti offre la possibilità di farlo diventare qualcosa di importante, aprendoti nuove strade, nuove strategie, nuovi metodi!

Perchè non buttarsi allora? Paura del giudizio? Se c’è una cosa che ho imparato è che a giudicare chi fa qualcosa spesso è proprio chi non lo fa. Chi resta fermo. Ed ho imparato ad ispirarmi invece a chi si muove e chi cerca di migliorare costantemente la propria vita. Per queste persone ci saranno tante cadute e tante sconfitte, ma sarà grazie a quelle cadute e a quelle sconfitte che arriveranno indescrivibili successi. Perchè chi cerca, prima o poi trova. Due anni fa, poco prima di iniziare l’avventura di Educatore 2.0, lessi su internet una frase che come puoi ben vedere mi ha colpito molto…

“Troveremo una strada, o ne costruiremo una”

Ed è proprio questo il senso,

Percorri la tua strada, ma se non ne hai una non preoccuparti: la costruiremo insieme.

Herbert Franta, un comunicatore educante

Conosci la figura di Herbert Franta? io l’ho scoperta durante gli anni universitari e ne sono rimasto incantato: parliamo di un sacerdote salesiano, docente di Psicologia della personalità e Psicologia della comunicazione e delle relazioni interpersonali alla Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana di Roma, dal 1972 al 1994. Attraverso la docenza, la ricerca e la pratica terapeutica, acquisì una competenza professionale ampia e qualitativamente molto elevata. Ne sono prova le sue numerose pubblicazioni tra studi, contributi a opere, articoli in riviste scientifiche; nonché la partecipazione a convegni, seminari, giornate di studio. I suoi campi di ricerca privilegiata sono stati gli interventi psicopedagogici e terapeutici, la Psicologia dell’interazione educativa e la Psicologia della personalità. Proprio il suo impegno a più livelli nella ricerca psicologica e nella pratica terapeutica hanno fatto si che nel corso della sua attività, i suoi interessi si concentrassero anche su altri aspetti dell’educazione: la comunicazione e la formazione degli insegnanti. In particolare, con l’esperienza maturata in anni di pratica e di consulenze psicologiche, Franta ha potuto constatare che le difficoltà comportamentali delle persone che gli si rivolgevano non provenivano esclusivamente da disturbi psichici o disagi sociali, quanto piuttosto dall’incapacità ad instaurare relazioni significative, cioè a vivere un’autentica comunicazione interpersonale. Questo faceva si che a volte nel lavoro terapeutico con le persone dovesse come lasciare incompiuta la crescita e lo sviluppo delle persone che gli si rivolgevano, non riuscendo a conseguire pienamente o adeguatamente le mete prefissate.

Ecco dunque l’opzione di studiare l’interazione e la comunicazione interpersonale, così da poter offrire, parallelamente ad un percorso di consulenza pedagogica o psicologica, anche dei percorsi specifici per acquisire le competenze comunicative in modo da formarsi ad autentiche e mature relazioni umane. Alla base di tutto questo, anche la convinzione secondo cui pedagogia e psicologia (discipline per natura indirizzate verso un aiuto) non si dovessero limitare ad intervenire solo in previsione del recupero del soggetto, ma dovessero lavorare preventivamente affinché si potessero aiutare le persone ad acquisire e sviluppare una serie di competenze comportamentali fondamentali per affrontare la vita in modo più sereno e strutturato. Se dovessimo riassumere l’intuizione di Franta, si potrebbe dire che è quella di aver colto come non bastavano le terapie a far stare bene le persone: erano necessarie relazioni autentiche che le rendessero efficaci. Infatti, laddove si presenti una situazione di necessità, è compito dell’educatore accompagnare l’educando in quello che è un vero e proprio viaggio: guardare dentro di sé spaventa, perché si ha a che fare con i lati più bui della personalità, ma ciò rappresenta anche una straordinaria risorsa per crescere e sviluppare il proprio potenziale umano. Per tale motivo è fondamentale che l’educatore sia preparato ad affrontare questo percorso, che possa studiare per immergersi nel mondo di chi ha davanti e che deve accompagnare. Deve essere pronto ad utilizzare tutte le sue abilità e strategie per comprendere in quale momento può prendere la mano del giovane, del ragazzo, della persona, e stare al suo fianco senza sostituirsi, e in quale altra situazione è sufficiente osservarlo da lontano quella che è una vera e propria “messa in pratica” per costruire e dare compimento all’opera della vita.

Franta sostiene che un educatore si trasforma, nel senso di crescere, in un “buon educatore” se ha alle spalle una struttura teorica ed esperienziale solide, se ha sviluppato un buon livello di consapevolezza e di empatica, se ha lavorato su sé stesso a livello personale e professionale. Non a caso, la competenza che secondo l’autore è maggiormente da esigere in un educatore è quella comunicativa. Una buona comunicazione infatti permette di farsi comprendere e di comprendere, di parlare e di ascoltare, di dialogare e di tacere, di guardare e di lasciarsi guardare, di intervenire e di fermarsi, di lasciare andare e di prendere per mano. La professionalità dell’educatore che si pone nella condizione di aiutare l’altro, può essere dunque, secondo Franta, in qualche modo misurata dalla presenza o assenza di certe caratteristiche inerenti la comunicazione. Cosa succede però quando gli educatori percepiscono o sperimentano l’inadeguatezza nello svolgere il loro compito educativo? Franta parla di una vera e propria incapacità che sovente questi ultimi provano nella loro sfera comunicativa nei confronti dei loro educandi. Una incompetenza che secondo l’autore non deriva solo dal fatto che gli educatori non sono a conoscenza dell’intenzionalità e dei contenuti cui la loro azione educativa deve rispondere : si tratta piuttosto della difficoltà a dar vita a vere relazioni di reciprocità, a intrecciare un’autentica comunicazione interpersonale.

Franta, forse inconsapevolmente, con il suo contributo mette a fuoco e approfondisce uno dei problemi storicamente più comuni, ma che oggi può dirsi una vera e propria emergenza a livello sociale: la difficoltà a comunicare, l’incapacità a realizzarsi nell’incontro con l’altro.

Problema, Bisogno, Domanda nella prospettiva di Sergio Tramma

Ero al terzo anno di università quando, imbattendomi nel testo di Sergio Tramma “Pedagogia Sociale”, lessi per la prima volta queste tre parole messe insieme: problema, bisogno e domanda.

Ricordo bene che era il periodo conclusivo della triennale ed avevo da poco deciso che avrei proseguito il mio percorso formativo con la specialistica in progettazione. Quel passaggio di Tramma l’ho letto solo quella volta, ma non l’ho più dimenticato. Dentro c’è un universo verso cui ogni educatore dovrebbe volgere il proprio sguardo.

Da professionisti diventa essenziale aver chiaro questo passaggio nella misura in cui non ci si vuole limitare a eseguire e basta, ma si ha il desiderio di comprendere la base del nostro intervento e soprattutto la programmazione e la progettualità che possono esserci dietro le azioni di ogni educatore.


Compiere il passaggio di analizzare il problema, il bisogno e la domanda del singolo o della comunità richiedente l’intervento dell’educatore significa costruirsi una zattera inaffondabile con cui muoversi nel guado.

Quante volte infatti vengono scritti progetti e ideati laboratori o interventi senza tener conto dei reali bisogni della persona, ma solo per soddisfare la fame vorace dell’ego di educatori e coordinatori?

E’ allora fondamentale o no compiere un’attenta analisi del problema entro cui si stanno muovendo i passi, del bisogno che l’altro sta manifestando e della domanda che direttamente o più verosimilmente indirettamente ci verrà posta per migliorare la condizione della sua attuale esistenza?

Questa fase viene prima di qualsiasi progettazione, prima di qualsiasi programmazione, prima di tutto. In un certo qual senso, ha la funzione di attivare nell’educatore quei campanelli di allerta che devono renderlo vigile rispetto a tutto quello che potrebbe accadere dopo, attivando un meccanismo di prevenzione e costruzione del processo educativo intero che seguirà. Edigere un intervento o un progetto con queste premesse è un po’ come costruire basi solide a un palazzo.

Scendiamo nello specifico;

  1. Problema Rappresenta il fulcro di tutto. Ogni nostro intervento nasce dall’esigenza di rispondere ad un problema. Può trattarsi di un problema nel comportamento di un bambino, di un problema nella socialità di un gruppo classe, di un problema nella definizione delle regole in una famiglia o di un problema nello sviluppo della carriera di un collega. Può verificarsi in un intervento domiciliare, a studio, a scuola, in aula o online. I problemi sono la più grande opportunità che abbiamo di cambiare le cose laddove queste hanno bisogno di essere cambiate: facendo nostro questo concetto sarà più semplice trasmettere la giusta modalità e individuare i passi giusti da compiere per rispondere realmente al problema.
  2. Bisogno Individuato il problema diventa necessario analizzare il bisogno che quel problema fa scaturire. Prendiamo come esempio il comportamento problema di un ragazzo autistico che ha bisogno di imparare a relazionarsi col mondo esterno e che non volendo rimanere seduto neanche un minuto una volta fuori casa, per le tre ore di assistenza domiciliare porta il suo educatore a camminare. Per tutto il tempo. Nessuna sosta, nessuna pausa. Tre volte a settimana. I problemi che possono scaturire sono molti:rafforzamento dell’azione stereotipata ed evitamento della regola nel ragazzo, calo nella salute psico-fisica dell’educatore. Un sali-scendi non esattamente benevolo. Che cosa si fa? Individuato il problema (il fatto che il ragazzo non è abituato a fermarsi e a sedersi su una panchina per spezzare il ritmo della passeggiata) l’educatore decide di insegnare al ragazzo a sedersi su una panchina nel bel mezzo della passeggiata.
  3. Domanda Individuato il problema (ragazzo autistico privo di momenti di interazione sociale) e plasmato il bisogno (acquisire comportamenti che lo avvicinino a costruire una forma di interazione col mondo), serve costruire la domanda: quale sarà l’azione richiesta al professionista per aiutare realmente il ragazzo? Quello di insegnargli a fermarsi durante la passeggiata e a sedersi su una panchina può rappresentare uno strumento in grado di funzionare: fermarsi implica sviluppare una capacità di controllo che potrà essere riversata in molteplici altri momenti di interazione sociale (ingresso in una attività commerciale, incontro casuale con dei conoscenti durante la passeggiata, telefonata in entrata per comunicare cambio di programma da membri della famiglia)

Fare proprio il concetto di problema/bisogno/domanda significa sviluppare una capacità di comprensione e chiarezza delle situazioni in grado di migliorare la qualità e lo stile del nostro intervento, qualunque sia la realtà professionale (e non) di applicazione.